Gli U2 infiammano Roma

Il concerto è costruito intorno alla celebrazione dell’album della svolta, ancora oggi attuale e potente. E lo rigenera come opera compiuta, entusiasmando come sempre il pubblico.

L’inizio è sobrio, loro quattro protesi su una pedana che arriva in mezzo al prato, col palco alle loro spalle ancora spento, una manciata di fari bianchi su di loro, come fossero una band qualsiasi, voce, basso, chitarra e batteria, senza i fantastici allestimenti che hanno fatto la storia dell’immaginario del rock. Solo per ricordare la genesi con quattro pezzi che raccontano e sintetizzano gli anni che precedono Joshua Tree, e sono Sunday bloody sunday, New years’day, Bad e Pride, quattro monumenti che scandiscono la loro crescita, la loro battaglia alla conquista del mondo rock, in mezzo ai quali Bono parla della bellezza della notte romana, della città che ospita le spoglie di John Keats, l’amatissimo poeta, e durante Bad cita Heroes di David Bowie, ovvero sia l’esaltazione del qui e ora, dell’essere eroi per una notte, che stavolta è questa, quella del concerto degli U2, pensato soprattutto per celebrare i trent’anni passati dall’uscita del disco della svolta, quel Joshua Tree ispirato all’albero americano dal nome biblico che cresce nei paesaggi desertici dell’Arizona. Un simbolo perfetto della vita che resiste, dell’albero che cerca l’acqua dove non c’è, ma cresce, è lì, e che su suggerimento dell’amico fotografo Anton Corbijn diventò la foto della copertina, e il titolo del disco. Il palco finalmente si accende, lo schermo gigantesco e iperdefinito rimanda le immagini che accompagnano l’esecuzione completa e integrale di tutto l’album dall’incipit di Where the streets have no name al finale di Mothers of the disappeared. E in questo modo l’album si rigenera come opera compiuta, e non solo una sequenza di brani, risplende nella voglia di raccontare il tuffo nelle contraddizioni di un’America vista come specchio del mondo occidentale, nella bellezza straziante dei suoi paesaggi, ma anche nella brutalità della politica, un disco che esalta parole come giustizia, comunità, pace, compassione e Bono le scandisce tra un pezzo e l’altro. La prima parte del resto è bruciante, mozzafiato, con I still haven’t found what I’m looking for, With or without you e Bullet the blue sky che seguono Where the streets have no name. Completano il ciclo Running to stand still e Red hill mining town, e con sommo vezzo teatrale a quel punto lo schermo si spegne. Bono ricorda che quando uscì il disco era un disco concepito per il vinile, aveva due facciate, ci si doveva fermare per girare il disco sul piatto e questo è esattamente il punto in cui finiva la facciata A. E’ evidente la voglia della band di non cedere alla nostalgia, di non cadere nella pura celebrazione, di riportare il disco alla contemporaneità. Presentando la seconda parte dice: “Alcuni di questi pezzi potrebbero essere addirittura più rilevanti oggi rispetto a trent’anni fa”. Parte In God’s country seguita da Trip through your eyes e One tree hill, pezzi per nulla abituali nelle scalette dei concerti U2. E si va fino in fondo, fino a Exit e Mother of disappeared, per completare l’esibizione integrale del capolavoro anni Ottanta, del disco che stabilì una volte per tutte il ruolo dei quattro U2, eroi impavidi e senza macchia, in missione per conto della più bella e importante delle cause: cambiare il mondo, in meglio. Poco prima del concerto si erano concessi nel backstage per un breve saluto. C’erano tre U2 su 4: Bono, The Edge e Adam Clayton per ribadire che Roma la amano, e come potremmo dubitarne? “E’ bello rivedervi”, dice Bono come se cercasse nelle facce dei giornalisti i segni del tempo e della familiarità con i precedenti tour. Poco prima Adam Clayton si era sperticato in un elogio del pubblico italico: “Il concerto è più o meno lo stesso che abbiamo prersentato a Vancouver, ma la differenza la fa il pubblico, e quello italiano è sempre stato speciale”. Bono vorrebbe parlare, è in forma, scherza: “Purtroppo quando sono in tour non posso bere… ma naturalmente usiamo crack e cocaina”, dice ridendo rivolgendosi a The Edge, anche lui sorridente. Si prestano alla foto di gruppo come fossero una scolaresca in gita. The Edge parla del nuovo disco che tutti aspettano: “Ci siamo quasi” dice, “e siamo molto contenti”. Le indiscrezioni parlano di un album duro, lucido, consapevole. Ma gli addetti all’organizzazione premono, pressano i tre dicendo che ci sarebbe un concerto da fare. Un concerto, appunto, atteso dallo stadio che si è riempito gradualmente nel corso della giornata, sotto un sole rovente, ascoltando poco prima delle 20 il concerto dei Noel Gallagher’s High Flying Birds e poi aspettando il buio in attesa dell’arrivo degli U2. Il concerto è nettamente diviso in tre parti: l’introduzione, l’integrale di Joshua tree, e un’ultima parte in cui sparano nella notte romana una sequenza sceltissima dei brani del dopo Joshua tree. Il pubblico segue con l’entusiasmo di sempre, accende lo stadio di migliaia di luci, alza le mani insieme alla band, canta a squarciagola i versi più famosi. Scorrono Miss Sarajevo (con la registrazione originale della voce di Luciano Pavarotti), Beautiful day, Elevation, Vertigo, colossali pillole di adrenalina per la folla che infiamma lo stadio, anche se in alcune zone il suono è orrendo, scandaloso, o almeno così è in tribuna Monte Mario, sotto la volta che distorce e impasta malamente i suoni del gruppo. Meglio sicuramente nel pratone dove la gente può felicemente godere della lezione di rock che gli U2 sono ancora in grado di impartire, suoni di elevata potenza, magnifici e stordenti, più centrati questa volta sull’essenzialità della musica, con un grande schermo che rimanda immagini enormi e bellissime, ma è poco in confronto agli allestimenti complessi degli ultimi decenni, scelta certamente voluta proprio in omaggio al ricordo di Joshua tree, che fu presentato in una versione tutto sommato sobria, proprio per dare massimo risalto al senso e alle motivazioni dei pezzi. Bono trova il modo di ringraziare l’Italia per il ruolo nell’accoglienza dei migranti, ma anche di proporre in finale qualcosa dell’altro capolavoro Achtung baby. One, in particolare è una di quelle canzoni che gli U2 non possono non prevedere, e che tutto sommato chiuderebbe meravigliosamente una serata dedicata al senso di un disco che sintetizzava la gloria, l’onore, la possibile dignità del rock. Ma in coda arriva anche un inedito, The little things that you leave away, un brano che sarà nel nuovo disco.

Gino Castaldo, la Repubblica

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