BRUNORI SAS, ECCO ‘A CASA TUTTO BENE’: “IL MIO CANTO UMANO PER ESORCIZZARE LE PAURE”

Al quarto disco, Dario Brunori mette da parte l’amore per raccontare un altro grande sentimento: la paura. Quella che oggi, più che mai, genera rabbia, populismo e disumanità. “Ho cercato il coraggio di dire e di dirmi delle cose andando dritto, senza renderle poetiche”

brunori1In quel luogo non ci era mai stato. Leggende popolane, voci contadine e la storia narravano di un posto pieno d’oscurità e di pericoli. Roghudi vecchia, uno degli ultimi paesi fantasma della Calabria, sorge in un luogo estremo. È terra cattiva, terra di sequestri. Eppure Dario Brunori si è allontanato dai luoghi natali, dalla provincia di Cosenza dove tuttora abita, per spingersi nel centro dell’Aspromonte. Si è trovato di fronte la natura selvaggia, lo stupore e qualcosa di inaspettato: una manciata di idee per un nuovo disco. A casa tutto bene, il suo quarto disco, nasce dal terrore dell’ignoto e dalla necessità di esorcizzare piccoli, grandi timori quotidiani. Quella paura – anzi la paura in tutte le sue forme – un po’ l’ha esorcizzata. Per la prima volta le nuove canzoni mettono da parte quel sentimento universale che popolava le canzoni di Brunori Sas, e quelle passate di generazione in generazione, dei cantautori vecchi e nuovi, per dedicarsi alla sua controparte. Non l’amore ma l’altra faccia della medaglia.
Così A casa tutto bene suona un po’ come una domanda, un po’ come una frase detta tra sé e sé, per autoconvincersi che sì, nonostante il mondo, nonostante tutto, ce la si farà. Anche se quello che non conosciamo ci trasforma in esseri umani timorosi che preferiscono non vedere, incapaci di fare scelte, di accettare gli sconosciuti, tendere una mano. Come il Don Abbondio che osserva alla finestra e “alla fine a noi che cazzo ce ne frega”, che fa un inchino perché anche la Madonna si piega, “per paura e per rispetto, per un pomodoro rosso come il sangue di un Cristo che ha la pelle così nera che nessuno lo ha mai visto”; o come L’uomo nero che “è un maniaco della famiglia, soprattutto quella cristiana per cui ama il prossimo suo solo se è carne di razza italiana” ma in fondo – a guardare bene – quello stesso uomo nero può cercare riparo nella nostra testa. Ecco allora che A casa tutto bene diventa un piccolo disco per liberarsi. Un disco nato in solitudine in Aspromonte, prodotto insieme a Taketo Gohara e alla squadra di sempre in una masseria isolata quasi da tutto (“tranne che dai parenti”) e che il 20 gennaio si affaccerà al mondo.
Sulla copertina di A casa tutto bene c’è un attaccapanni con un cappotto appeso ma un cappello caduto a terra. Perché?
“Volevo innanzitutto una copertina grafica e non fotografica, visto che ho sempre messo la mia faccia, anche per far capire che mi sto liberando dal mio ego (ride, ndr)… Volevo dare l’idea di casa, con il simbolo della casa per eccellenza, quello che uno incontra quando entra e anche l’ultimo oggetto che vede”.
Nel primo singolo del disco, La verità, canti: “Te ne sei accorto o no? Che non c’hai più le palle per rischiare di diventare quello che ti pare”. Tu invece hai rischiato, non hai abbandonato la Calabria dove avevi un lavoro nell’azienda di famiglia che però non hai scelto perché volevi fare il cantautore. La più grande paura degli italiani è cambiare?
“Non credo solo degli italiani, penso sia in generale una condizione dell’umanità, quella di vivere costantemente questo attrito tra una parte di te che cerca la sicurezza, anche nelle piccole cose quotidiane, e l’altra che invece si rende conto che quella comfort zone in realtà non è vitale, non è vita. È una cosa comune che ho vissuto e ha caratterizzato molte altre mie canzoni, che tracciano la condizione di chi non facendo una scelta tramuta quell’azione nella scelta. In questa canzone parlo della paura per antonomasia: la paura della fine”.
Quanto ti è costato scegliere in quel modo, con una famiglia alle spalle che probabilmente si aspettava che tu continuassi a lavorare nella Sas di famiglia, produttrice di mattoni?
“Vengo da una famiglia di mattonari e probabilmente questo ha influenzato non solo la pesantezza delle mie canzoni ma anche una certa attitudine artigianale nel modo in cui le realizzo, oltre al fatto di essermi soprannominato Sas (ride, ndr). Non è stato difficile, no, ho sempre avuto fortunatamente dei genitori che mi hanno spinto a fare ciò che volevo, certo la carriera di musicista non era prevista; c’è sempre stato un aspetto pragmatico in famiglia, perché venivamo dal ‘costruire le case’. Non è stata una scelta vera e propria, molto è emerso credo in modo inconsapevole, e nel momento in cui stavo lavorando nella ditta di mio padre sono venute fuori le prime canzoni e da lì mi sono adeguato a quello che stava succedendo, anche sorprendendomi. Non ho mai detto: ‘Basta, adesso cambio vita’. Non sono per le rivoluzioni copernicane, io mi rivoluzione poco alla volta, ogni giorno”.
Un disco registrato in una masseria, con piscina, che nell’idea di chi non vive al sud corrisponde subito a una parola: vacanza. Tu invece ti sei chiuso lì con il tuo gruppo e non hai fatto entrare nessuno. Nemmeno i parenti?
“Questo è impossibile. C’è stata una domenica molto ricca, come un battesimo o una comunione, in cui ho scelto di farli venire tutti in una volta. Non pensavo ci sarebbero stati… per tutto il resto delle registrazioni siamo rimasti isolati. L’idea di andare lì non era un’idea estetica o un vezzo di chi vuole ricostruire un’attitudine da comune anni Settanta, volevo che ci fosse un momento in cui tutti noi – un gruppo di lavoro con cui ormai faccio dischi da tempo – ci concentrassimo. È molto importante, spesso l’ispirazione va presa al volo quando arriva”.
In Vol.2 – Poveri Cristi, del 2011, cantavi di gente umile che vive con difficoltà; in questo disco continui a parlare di persone che cercano di farcela, spesso di immigrati, ma stavolta si aggiunge un sentimento, la paura, che prima non c’era, c’era solo la fatica. Cos’ha la paura di tanto affascinante da costruirci intorno un intero disco?
“Vedo paura ovunque da un po’ di tempo, e non solo nei media o nei telegiornali. Vedo che questo sentimento sta avendo un impatto anche nella vita reale delle persone e in contesti inaspettati, quando sento determinate affermazioni, nell’intimità di cene o incontri privati. Questo ha messo in discussione anche una mia visione del mondo, delle persone e dell’umanità. Sono rimasto suggestionato, era il momento di raccontarlo. Ho dovuto mettere in discussione in primis me stesso. Quasi tutte le canzoni che parlano di attualità parlano di me, dell’attrito che c’è tra quello che io penso di me e quando lo confronto con il mondo reale. Mi sono reso conto che tutto quello che condanno, a volte, mi appartiene in parte. Volevo comprendere le cose, nel senso etimologico del termine, capire quanto di me c’è in quel che io tendo a considerare altro da me. Qualcuno diceva che la paura e l’amore sono due motori che muovono la vita degli esseri umani: mi sono occupato finora più del primo, era venuto il momento di pensare al secondo”.
Ti ha aiutato a esorcizzare le tue paure?
“Mi ha aiutato ad affrontare la paura di scrivere e descrivere alcune cose che in passato ho trattato con l’occhio di chi ci costruisce attorno una poetica, o cercando un lieto fine, o con uno sguardo più da ‘neorealismo italiano’. Era più l’idea che io avevo in testa di quel tema, più una fantasia. Qui ho cercato il coraggio di dire e di dirmi delle cose andando dritto, per come effettivamente la vedevo, senza dover per forza essere sempre brillante o ironico. È prevalso il sentimento alla poetica eccessiva”.
Il video de La verità mostra un padre di famiglia che vive una vita umile. Potrebbe prendere la via più facile, ma sceglie la retta via. Quanto è difficile oggi essere onesti?
“La sensazione che si ha, ed è amplificata da un certo tipo di giornalismo che dovrebbe denunciare ma spesso ottiene l’effetto contrario, cioè di sdoganamento di un certo tipo di attitudine, è che le persone oneste si sentono prese in giro. Invece bisognerebbe avere, come in altri ambiti, uno sguardo più ampio: quello che io vedo di male, al di là dell’onestà e dell’etica, è che si sceglie sempre la via a breve termine, in politica come nella discografia. Tutti guardano vicino, mai lontano”.
Questa pigrizia, questo volere tutto subito, lo vedi anche nella nuova musica italiana?
“Non nella nuova musica italiana, ma più in generale, per ragioni di ordine economico. Un tempo si davano più opportunità ad artisti che poi nel tempo hanno pagato, come Guccini o Dalla che amo. Ci si investiva. Io ho fatto Economia e Commercio, per farla breve dico che probabilmente si ragiona sul trimestre invece che sulla lunga distanza”.
Ne L’uomo nero descrivi un fascista, o uno di quei populisti che magari hanno un profilo Facebook dove pubblicano la foto dei figli ma poi scrivono cose aberranti contro altri esseri umani; Don Abbondio è una metafora di tante cose, qualcuno che noi vediamo, ma anche noi stessi, in cui emerge lo spettro della ‘ndrangheta. Può essere considerato il tuo disco di denuncia?
“Emerge un forte senso di denuncia e un connotato politico a un primo ascolto, ma per me era molto importante tracciare due cose: un sentimento di amarezza che mi fa vedere queste canzoni – con tutte le proporzioni del caso – con l’approccio che può avere avuto Battiato quando ha scritto Povera Patria, una forma di amarezza umana, non politica nel senso ideologico del termine, ma di empatia umana, del domandarsi ‘ma dove stiamo andando?’. E poi c’è il mettermici dentro, in quella condizione che io condanno, ma in cui poi mi devo chiedere: ‘Io come mi comporto?’. Quando mi confronto con i miei coetanei sento questa grande amarezza che diventa disillusione generale, in cui a volte preferiamo guardare oltre, per non vedere ciò che ci circonda”. A un certo punto dici una cosa terribile: “In fondo va tutto bene, mi basta solo non fare figli”.
“Sì, lì sono stato molto onesto, perché è un pensiero che ho fatto. In quella frase forse si condensa tutto il senso di queste canzoni ‘nuove’ per me, queste canzoni dal taglio diverso. Volevo rappresentare la condizione di chi di fronte a situazioni sulle quali nemmeno riesce a prendere una posizione – non perché non vuole ma per incapacità di gestire tutto quel ‘rumore’ – la chiude così. Però poi aggiungo: ‘E invece no’”.
Nel comunicato stampa c’è scritto che sei uno dei migliori narratori della nostra generazione.
“Io avrei voluto ‘il migliore’ (ride, ndr)… Quando scrivi una canzone devi essere anche un po’ ambizioso e, forse, pretenzioso. Scrivi una canzone per te ma sai che la racconterai ad altri e pensi che sia importante, e sia importante farlo dal tuo punto di vista. Riesce a narrare la nostra epoca? No so, ma io mi ritengo vicino alle persone: probabilmente la mia attitudine ‘popolare’ mi ha fatto prendere delle cose da fuori e narrare una parte di umanità”.
Motta ha raccontato la fine dei vent’anni con una metafora: ‘È un po’ come essere in ritardo, non devi sbagliare strada e trovare parcheggio’. Il 2017 sarà, per te, la fine dei trent’anni. Cosa ti aspetti?
“Che la macchina a quel punto la devi rottamare (ride, ndr)… No, in realtà sono molto felice, lo dico spesso come una battuta ma finalmente ho raggiunto quell’età che mi sono sentito dentro fin da quando avevo 15 anni, e la vivo bene. Sono felice del fatto che questo disco – per quanto viviamo in un’epoca in cui ‘ormai siamo troppo giovani’ come canta un altro cantautore, Dimartino, per dire che viviamo in una condizione in cui non vogliamo mai crescere – è arrivato nel momento in cui prendo consapevolezza della mia età. Ora sono giustificato nelle mie scelte”.

La Repubblica

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