GRANDE STORIA DI RAI3, I VENT’ANNI DEL PROGRAMMA CHE HA TRASFORMATO I DOCUMENTARI (E FA ASCOLTI): “IL SEGRETO? RACCONTIAMO COME SE FOSSE UN FILM”

La metamorfosi (cauta) e le ragioni (semplici) di uno dei programmi più longevi della televisione, che Minoli portò in prima serata nel 1997. Il pubblico non l’ha mai lasciato e ora si riunisce sulle pagine facebook e twitter. L’ideatore Luigi Bizzarri: “Facciamo un lavoro da inviati nel passato, sempre alla ricerca di documenti e immagini inedite. Le bufale e la post-verità si combattono anche così: non finendo mai di cercare la verità”

Paolo MieliPer la prima volta è stata la Storia in televisione subito dopo cena. Per la prima volta ha raccontato in tv quello di cui per decenni – nel mondo diviso in due – non si è potuto parlare senza litigare: dai deliri del fascismo agli incubi del comunismo sovietico. Per la prima volta ha raccontato la Storia come se fosse non un libro di testo, ma un romanzo. E, infine, per la prima volta, il racconto della Storia in tv non come un riassunto delle puntate precedenti, ma un’inchiesta giornalistica nel passato, un lavoro di ricerca e di verifica di fonti, con i piedi piantati dove la storia si è fatta. La Grande Storia di Rai3 compie vent’anni e, dentro una televisione che fagocita e brucia tutto, continua a essere uno dei programmi più longevi della televisione.
Vincere raccontando la Storia
Longevo eppure “giovanissimo” e non solo perché ora ha una famiglia sempre più larga su facebook e twitter. E’ giovane perché quasi infallibile nell’adeguare il linguaggio di oggi a quello che è successo ieri e perché abile nel trasformarsi in un tempo ossessionato dal ritmo e dalla scelta su misura. In un periodo in cui i talk-show (cioè in qualche modo il racconto la Storia che si sta facendo) muoiono perché superati dall’invincibilità di internet, la Grande Storia continua a fare anche ascolti: l’edizione appena inaugurata ha messo in fila una prima serata al 4,1 per cento di share con poco più di un milione di spettatori per La Chiesa in uscita (puntata dedicata a Papa Francesco) e poi, in seconda serata, l’8 per cento, con 1.210.000 spettatori per La caduta degli dei, il racconto delle ferite lasciate dalle atrocità della follia nazista. Prima della tradizione stagione estiva, in queste settimane fino a marzo una serie di puntate da 50 minuti sarà in programma fino a marzo, il lunedì sera, sempre con il commento di Paolo Mieli.
“Raccontiamo come se fosse un C’era una volta”
Nel mondo a cento all’ora di internet e dalle mille offerte dei canali satellitari, una parte di pubblico continua quindi a preferire il racconto. “Come un c’era una volta” dice Luigi Bizzarri, uno degli ideatori e curatori del programma e autore di tutte le puntate sui Papi. “Abbiamo cercato di trovare un’altra grammatica nel racconto della Storia in televisione – spiega – Ed è uno dei punti che ha permesso a questa trasmissione di durare così a lungo”. Un modo di interpretare la realtà, tra passato e futuro. E’ il caso di Francesco, il pontefice venuto dalla fine del mondo, che da vivente e governante è già entrato nel racconto della Grande Storia: “Perché? Le riporto una frase di un amico che è stato consulente storico di tutte le puntate sui Papi, Alberto Melloni: nella Chiesa ogni 50 anni c’è un profeta che apre le porte che poi si richiudono per altri 50 anni. Bergoglio ha portato alle estreme conseguenze ciò che ha portato avanti 50 anni prima Giovanni XXIII con il Concilio Vaticano II“.
Le bufale della Storia
Quanto sia delicato avere a che fare con il racconto della Storia si capisce anche col fatto che la Storia è stata la prima a fare i conti con il rischio di bufale e post-verità. Non è un caso che la prossima puntata (lunedì 23, 23,15) sia intitolata La fine di Hitler, tra post-verità e bunker. Una sorta di fact-checking sulle più diverse (e fantasiose) ipotesi alternative alla morte del Führer. “Stiamo andando verso un periodo post-gutenberghiano – spiega Bizzarri – Contano sempre di più emotività e sentimento e sempre meno l’oggettività”. E il vaccino? “L’antidoto secondo me è novecentesco. Cioè puntare sempre al principio di realtà. Tornare all’affidabilità del materiale, alla cura del repertorio, alla filologia. Non perdere mai di vista la ricerca della realtà oggettiva. E’ il lavoro che cerchiamo di fare noi sempre nel miglior modo possibile”.
L’intuizione di Minoli e il primo successo del 1997
In Rai dal 1980, a lungo capostruttura, Bizzarri lavora con una ventina di persone tra programmisti, assistenti, funzionari e altre figure che si sono alternate nel tempo. Un prodotto tutto della Rai. Insieme a Bizzarri lavorano tutti interni: Nicola Bertini, Ilaria Degano, Mauro Longoni e Anna Maria Rotoli. La scommessa della Grande Storia è del 1997 quando l’idea del documentario in prima serata venne a Giovanni Minoli, allora direttore di Rai3, mentre la spinta per proseguire la dette Pasquale D’Alessandro, allora vice di Rai3 e ora alla guida di Rai5, il canale culturale della Rai. La prima volta fu Galeazzo Ciano-Una tragedia fascista, di Nicola Caracciolo, che era stato presentato al Festival di Venezia.
“Dopo il Muro, il pubblico aveva fame di sapere”
E quella sera su Rai3 fu un successo. “Era un momento di sdoganamento di tanti argomenti di cui prima si faceva fatica a parlare – spiega Bizzarri – Da pochi anni era caduto il Muro di Berlino. Prima alcuni temi storici erano un tabù: a ogni sostantivo bisognava aggiungere un aggettivo, come se ci fosse sempre bisogno dell’antidoto. Ma dopo la fine dei mondi contrapposti diventò tutto più facile. Per questo il programma ebbe subito una grande risposta di pubblico: perché perché vedevano un’Italia che non conoscevano”. Così – dopo la sbornia della tv commerciale, da bere – la Grande Storia ha rovesciato la bussola e ha indicato da tutt’altra parte, diventando nel tempo una colonna di una nuova “alfabetizzazione” quarant’anni dopo Non è mai troppo tardi. Non più l’abbecedario per saper leggere e scrivere, ma gli strumenti per conoscere la Storia meglio e in modo meno complicato. Un compito determinante nell’Italia descritta fino a qualche giorno fa da Tullio De Mauro.
La nuova narrazione: dal testo-moloch al racconto
Servizio pubblico, insomma, una volta tanto. Né il modernismo dei format stranieri né l’appisolamento dei programmi di storia nella mano esclusiva dei “sapienti”. “Prima il documentario aveva una forma primitiva – racconta Bizzarri – Si prendeva un professore universitario, gli si dava un argomento e lui componeva il testo. Che però era un moloch. Poi si prendevano dei registi per coprire la voce fuori campo con delle immagini e dei rumori a commentare le immagini. Ecco: noi abbiamo cercato di cambiare la grammatica del racconto televisivo“. La formula vincente parte da qui, dal ribaltamento del modo in cui si costruisce il racconto: “Di solito partiamo da un nucleo narrativo di 2-3 minuti e poi lavoriamo su quel nucleo”. Una forma giornalistica, a suo modo, con un attacco, uno sviluppo e una chiusa del pezzo e uno stile più “mediterraneo”, meno freddo, che passa per le emozioni oltre che per le informazioni. “Più un film che un documentario“.
La “caccia” (in tutta Europa) ai filmati originali
L’occhio disattento confonde tutto, ma la Grande Storia è stato il primo programma a cercare in giro documenti originali. “Abbiamo girato mezza Europa per cercare immagini nuove – racconta Bizzarri – E abbiamo avuto fortuna perché era anche una contingenza particolare, con l’apertura di diversi archivi. Per esempio quelli sovietici, grazie ai quali abbiamo trovato molte immagini inedite della Germania nazista, mai viste prima in Italia. Ma è successo anche con un filmato di Benedetto XV dagli archivi francesi o Pio II da quelli tedeschi. Da anni per ogni puntata cerchiamo sempre di avere almeno 10 minuti di immagini inedite”.
Non è solo l’orgoglio di avere immagini esclusive. C’è anche la correttezza di dare allo spettatore un’aderenza perfetta tra testo e immagini: “Siamo affezionati alla filologia delle immagini: quello che si vede è quello di cui si parla”. Un aspetto che si lega a un terzo punto che secondo Bizzarri è l’ingrediente della pozione magica della Storia in tv: l’autorevolezza. “Abbiamo sempre un consulente storico, un professore universitario che controlla tutto il testo in modo che ogni errore sia evitato al massimo”.
Infine la capacità di metamorfosi (cauta) per stare al passo col tempo. Bizzarri la chiama “flessibilità”: “Siamo partiti da due ore secche – ricorda – Ma la televisione è cambiata perché è cambiato lo spettatore, c’è maggiore frammentazione dell’attenzione. C’è un’attenzione quasi impressionistica, con meno collegamenti e a volte meno ragionamento. Quindi la formula narrativa ha dovuto trasformarsi, abbandonando la prerogativa della sola unicità del film-documento. Ora le puntate sono divise in tre, quattro. E’ una specie di telecomando incorporato, senza perdere consistenza e qualità“.
I reporter nella Storia
In un certo senso un’evoluzione. Oltre la monografia: piuttosto un discorso unico che mette insieme, con coerenza, pezzi diversi della Storia. “La ‘sete di sapere‘ di informazioni primarie dei primi anni – riflette Bizzarri – si è un po’ saturata. Per questo non c’è più bisogno di una ricapitolazione di ciò che è stato, ma l’approccio si è spostato su una forma di ‘report della Storia’, inchieste giornalistiche nel passato”. Gli esempi sono parecchi, ma prendendo i luoghi più celebri si possono ricordare le puntate di Enzo Antonio Cicchino che ricostruiva l’uccisione di Benito Mussolini proprio a Giulino di Mezzegra o quella di Fabio Toncelli che ha mostrato il posto in cui si trovava un tempo il bunker della cancelleria di Berlino. In sostanza la ricerca storica quasi mentre si costruisce la puntata, andando a ricercare i documenti negli archivi.
La Grande Storia si fa un po’ pop
Una mutazione che sfiora una metamorfosi anche più pop, anche per staccarsi dai temi del nazismo e del fascismo, peraltro quelli che portano sempre più audience. La Grande Storia ha raccontato negli ultimi anni i principali eventi della storia degli Stati Uniti, anche attraverso la vita delle loro first ladies, o ancora la biografia di un’altra vivente, la regina Elisabetta II, oppure la storia del linguaggio politico in tv o la vita degli attori dell’avanspettacolo a cavallo della seconda guerra mondiale. Su tutto, infine, la narrazione non solo delle storie dei Papi del Novecento da Pio XII in poi. Ma anche dei fenomeni legati alla religiosità: i pellegrinaggi di Lourdes, la devozione per Padre Pio.
“Lourdes o Padre Pio? Non seguiamo l’aspetto miracolistico
Non c’è il rischio di aderire non a fatti, ma a credenze? “Ci stiamo molto attenti – risponde Bizzarri – Non a caso la prima puntata su Padre Pio è del 2008 e la chiamammo La storia di Francesco Forgione. Una biografia, padre-pioricordando gli eventi anche straordinari e inserendo anche i racconti dei fedeli come citazioni e testimonianze”. Di certo la scelta non è di “evangelizzazione”. Più prosaicamente “la riflessione è stata sull’ampliamento del pubblico. In questo senso abbiamo visto che nelle fasce d’ascolto riconoscevamo una curva quando parlavamo di argomenti più metafisici. Quindi nel caso di Lourdes, per esempio, non seguiamo l’aspetto miracolistico. Piuttosto è un racconto che segue l’empatia, i desideri, i sogni delle persone che vanno a Lourdes e che si concretizzano in aspetti devozionali”.
La Grande Storia (che è anche dei “piccoli”)
E questo non è altro che un modo per spostare ancora una volta il riflettore dalla Storia dei leader – siano politici o religiosi – a quella dei loro popoli, in un continuo cambio di prospettiva, dall’alto e dal basso, forse il vero racconto a cui gli spettatori restano affezionati, perché lì dentro ci si possono riconoscere. Accanto ai documenti ufficiali e alle ricostruzioni storiografiche, in questi anni su Rai3 ha parlato la voce viva delle testimonianze delle persone: dai sopravvissuti ai lager ai partigiani della Resistenza fino ai bambini diventati nonni che ancora scoppiano in lacrime quando ricordano il terrore dei bombardamenti alleati. La Storia come storia di tutti noi.

Diego Petrini, FQ Magazine

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