GIGANTESCO SPIELBERG COM’È CONTROCORRENTE LA VITTORIA DEL BENE…

La delicata pellicola tratta da Dahl esalta valori desueti nel mondo del cinema spesso trasgressivo “per contratto”

spilberg2Cannes – Perché a Cannes non ci si scandalizza più si domandava ieri sgomento Libération, dopo la prima di Rester Vertical, il «bellissimo film», a suo giudizio, di Alain Guiraudie? Il motivo dello stupore stava in una scena madre, il suicidio assistito di un anziano sodomita a cui l’estrema unzione laica veniva somministrata a colpi di pistone nel posteriore, per dirla con un eufemismo…
Una delle risposte potrebbe essere che a Cannes, da anni, si vede di tutto e di più, e il sesso, comunque amministrato e/o somministrato, ormai lascia indifferenti. Un’altra è che la provocazione può annidarsi proprio dove meno te lo aspetti, per esempio nel trionfo che ha segnato la proiezione fuori concorso di The BFG, The Big Friendly Giant, il film che Steven Spielberg ha realizzato sceneggiando uno dei capolavori della letteratura per ragazzi, l’omonimo romanzo di Roald Dahl. Pensateci: per due ore una favola infantile, dove si parla di giganti cannibali e di un gigante vegetariano, di cacce nel territorio dei sogni e di orfanelle coraggiose, di incubi notturni e di regine sagge, del bene che trionfa e del male che non ha scusanti (non è colpa della società, è innato) ha tenuto la platea degli addetti ai lavori a bocca aperta. C’era, certamente, la magia visionaria del regista e dei suoi effetti speciali, e di sicuro le storie di Dahl sono, letterariamente parlando, quanto di meglio un dialoghista di Hollywood possa avere sotto le mani. Ma dietro c’è anche quella componente d’infanzia che dentro ciascuno di noi sonnecchia e che, se risvegliata, consente ancora stupori, gioie e meraviglia. Diceva Tolkien che il suo aver dato vita al mondo alternativo del Signore degli anelli non rispondeva alla logica di chi vorrebbe evadere dalla realtà, ovvero una diserzione dalla vita. Al contrario, era la fuga del prigioniero, ovvero la riaffermazione della propria libertà di essere umano. The BFG in fondo è proprio questo e non è un caso che quando il romanzo uscì, nel 1982, fosse l’anno in cui Spielberg mandava sugli schermi E.T. L’extraterrestre, due storie classiche di amicizie atipiche e trasformatrici, dove il fantastico e il terrificante andavano a braccetto. Né è un caso che nel letto-dormitorio della piccola Sophie, l’eroina della storia (la straordinaria Ruby Barnhill) fra i pupazzi chiamati a compensare la mancanza dei genitori ci sia proprio quello di E.T., come a sottolineare un passaggio di consegne. Tutto nel film è all’insegna della fantasy, dalla taglia dei giganti, oltre 12 metri, al Paese dove vivono, selvaggio e inospitale, al linguaggio che usano, il «Gobblefunk». A tradurlo in italiano, le cose buone sono «gnam-gnam-missime», i chiacchieroni sono «sacchi-parole», la televisione non è che la «tele-scatola-blabla», gli incubi sono gli «spaventa-sogni». Nelle mani dei giganti, i cui nomi sono «Mangia-carne-fresca», «Bevitore- di- sangue», «Rompiossa», «Cuoci-bambine», le spade hanno la funzione di aghi, per cinture ci sono i manicotti anti-incendio, la forchetta è un forcone, le ali di un aeroplano fanno da panca Sulla scena l’umorismo non nasconde l’inquietudine, la paura si accompagna alla redenzione e tutto è percorso dall’idea, questa sì scandalosa ai nostri giorni, che l’amicizia, la lealtà, il crederci e il difenderle, possa alla fine trionfare. Prodotto, fra gli altri, dalla Disney, sceneggiato dal premio Oscar Melissa Mathison, interpretato dal premio Oscar Mark Rylance (è lui il gigante buono), con la fotografia del due volte Oscar Janusz Kaminski e le scene dell’altrettanto oscarizzato Rick Carter, con agli effetti speciali Joe Letteri, uno che di Oscar in materia ne ha vinti quattro, The BFG è un trionfo visivo di tecnologia (grazie alla Simulcam) senza per questo mai essere un qualcosa di artificialmente costruito. Ciò che nell’immaginario infantile dava vita alla pagine scritta di Dahl, Spielberg lo riesce a rendere reale sullo schermo. Un trionfo di invenzione, intelligenza, fantasia. «Potermi rifugiare nell’immaginario e nel paese dei sogni è di per sé un sogno» dice il regista. «Ho girato tanti film storici, da Schindler’s List a Lincoln, ad Amistad, sentivo il bisogno di tornare a quello che so fare meglio: lasciare libero corso alla mia immaginazione. Ero sempre stato attratto dai romanzi di Dahl, quel suo mischiare luci e ombre, quell’insegnare ai suoi giovani lettori, e non solo a loro, quei concetti basilari del vivere civile, coraggio, onestà, lealtà, senso dell’amicizia. Credo sia il film più bello e più strano della mia carriera Che poi sia il primo realizzato per gli studios Disney, mi riempie di fierezza».

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