X FACTOR 2016, MANUEL AGNELLI: «SARÒ ANTIPATICO E ARROGANTE»

È il padre del rock alternativo italiano e, da trent’anni, leader degli Afterhours. Ma qualcosa è successo a Manuel Agnelli: ha rotto con il suo ambiente («Troppi fighetti, anzi fascisti»), ed è diventato giudice di X Factor 10. E a chi gli dà del venduto…

LAEFFE AGNELLIIl set fotografico si divide in due: i fan accaniti e quelli che non lo hanno mai sentito nominare. E questo piccolo microcosmo racconta bene la vita e le opere di Manuel Agnelli, che non è semplicemente il leader di una band quasi trentennale, gli Afterhours: è uno dei padri del rock alternativo italiano, osannato come un Messia e criticatissimo, sempre con grande trasporto, nel mondo della musica indie; e nello stesso tempo un musicista semisconosciuto al grande pubblico. Un’incursione nel nazional-popolare, in verità, la fece nel 2009 partecipando al Festival di Sanremo con gli Afterhours (ultimi classificati), ma fu un gesto isolato e «situazionista», come spiega lui. Manuel, all’anagrafe Manuele, 50 anni, nato in provincia di Milano, dagli anni ’80 persegue con ostinazione la sua idea di musica come ribellione al filone commerciale, nei ’90 cantava cose come «sui giovani d’oggi ci scatarro su» e «non si esce vivi dagli anni ’80», ha animato il più grande festival di alternative rock in Italia, il Tora! Tora!.
Tutto questo preambolo per spiegare perché i fan non hanno esattamente gradito la notizia che Manuel Agnelli è uno dei nuovi giudici di X Factor – selezioni dal 15 settembre su Sky Uno, in ottobre i live – assieme ad Arisa, Fedez e Álvaro Soler. Una pioggia di critiche e insulti, il più garbato dei quali è «ti sei venduto».
Nel mezzo della polemica è uscito anche l’ultimo lavoro degli Afterhours, Folfiri o Folfox, un doppio album che porta il nome dei due trattamenti di chemioterapia seguiti dal padre di Manuel prima di morire.
Insomma Manuel, si è «venduto»?
«Il fatto che mi debba giustificare per X Factor è grottesco. Mettiamola così: prima di tradirlo, io sono stato tradito dal mio mondo e dall’ideale alternative».
Si spieghi.
«La scelta di partecipare a X Factor è un segnale forte di rottura che voglio dare al mondo dell’indie. Io l’avevo scelto perché per me voleva dire libertà: non solo di fare la musica che volevo – quello è il minimo –ma di essere me stesso, con tutti i miei difetti. Quell’ambiente è cambiato radicalmente, è diventato conformista, di più: fascista».
Addirittura?
«Ci sono le tavole della legge: devi comprare quella chitarra, usare quel suono, dire certe cose. L’alternative rock è stato svuotato dei suoi significati, è diventato moda, così come prima è successo al punk, alla new wave, al grunge. Ormai è solo una schiera di fighetti che vivono con i genitori e hanno scelto un costume, e se tu non lo indossi sei uno sfigato. E io ho 50 anni e non ne posso più».
Quindi va in Tv in un talent show dove ci sono ragazzi che cercano il successo e gareggiano per un contratto discografico.
«Sì, mi sporco le mani. Per me non esistono più gli steccati: l’idea della riserva indiana, di difendere i confini, non produce un cazzo. E scriva “cazzo”. Bisogna contaminarsi».
Sono i suoi fan che la criticano più aspramente.
«E a loro dico: levatevi dalle palle. Io voglio gente che si fida. Non accetto un tribunale che decide cosa è giusto e cosa sbagliato».
Lei a vent’anni sarebbe andato a X Factor?
«No. Non credo nelle gare musicali».
Però fa il giudice di una gara musicale.
«Non ci vedo una contraddizione: io voglio portare la mia visione della musica in quel contesto».
Lo farà anche per i soldi.
«I soldi sono tanti, me li merito, me li tengo e ci faccio quel cazzo che voglio. Ma voglio dire a chi mi critica che i soldi di X Factor io me li faccio con un tour. È da anni che non ho più bisogno di pagarmi il mutuo. Certo, per quattro lire non l’avrei fatto».
E allora perché va in Tv?
«Penso che la visibilità che mi arriverà con X Factor mi permetterà di chiudere dei progetti, di parlare con alcune persone. Sono tre anni che partecipo a una rete di addetti ai lavori, musicisti e politici per ridefinire la normativa intorno alla musica. Ci sono tante questioni importanti: per esempio, io come tanti pago l’Enpals (la cassa previdenziale degli artisti, ndr) anche se non percepirò mai una pensione, per via di alcune regole assurde».
Guardava X Factor in Tv?
«Ogni tanto, mai con continuità. Mi piaceva moltissimo Morgan. Ci conosciamo da tanti anni, abbiamo lo stesso retroterra».
Diventerà il nuovo Morgan? L’alternativo che si trasforma in personaggio nazional-popolare?
«Non succederà. Lui è molto più bravo di me in Tv e io sono troppo antipatico. Al massimo diventerò famoso, ma per poco».
Ha fama di essere arrogante.
«È vero. Mi diverte esserlo».
Dicono anche che lei è uno che se la tira.
«Dipende. Nella musica sì. Non suono con qualcuno che non stimo musicalmente, anche se umanamente mi piace».
Mai comprato un disco di un cantante del talent?
«Mai. Hanno sempre vinto personaggi bravi ma lontani da me. Ho pensato a lungo se voglio vincere o rappresentare me stesso».
E alla fine?
«Voglio entrambe le cose».
Se vuole vincere dovrà puntare sul pop.
«No. Se faccio cantare Beyoncé vuol dire che ho fallito».
Parliamo degli altri giudici. Fedez.
«Mi piace. Ha i piedi per terra, le idee chiare, è trasparente. Certo, la sua musica non mi piace. Il rap di oggi è sempre la stessa pappa, con un immaginario che mi vergognerei ad avere».
Álvaro Soler.
«Musicalmente è quanto di più distante possa esserci, ma come persona è adorabile, ci andrei in vacanza».
Arisa.
«Un demonio! Mi piace molto, scompagina le carte».
Crede che esista il fattore X?
«Sì: è la capacità di trasmettere energie. Pensi a Lou Reed: non era molto dotato vocalmente ma ha cambiato la storia della musica. Io cerco quella cosa lì nella mia squadra. Io cerco Lou Reed».
Com’è la sua squadra?
«Mi hanno assegnato gli over 25. Sono cantanti tutti molto raffinati».
Lei ha una figlia di 10 anni, Emma. Si augura per lei un futuro nella musica?
«Se vorrà fare la musicista io sarò contento. Ma non la spingo a fare niente. È molto curiosa: dipinge, scrive poesie pazzesche, fa break dance, tennis, nuoto. Forse le stiamo dando un po’ troppi stimoli».
Ha capito chi è suo papà?
«Credo di sì. Non le nascondo niente, neanche le cose brutte. Non voglio preservarla da nessun tipo di dolore. C’è una generazione, quella dei 35-40enni di oggi, che è cresciuta iper-protetta: infatti sono tutti dei deficienti, non sanno sentirsi dire di no».
Addirittura?
«I ragazzini di oggi li vedo più svegli, sono nati nella crisi».
È da poco uscito il suo disco più personale, Folfiri o Folfox. Le è servito a elaborare la perdita di suo padre?
«È servito a sublimare. In Libertà di Franzen c’è un personaggio che scrive canzoni per elaborare cose brutte che gli sono successe, e si accorge che più le canta e più gli vengono in mente cose ordinarie, come andare a fare la spesa o parcheggiare in divieto di sosta. Succede anche a me: la musica ti fa buttare fuori le tossine e alla fine, quando canti quelle canzoni cariche di dolore, scopri che il dolore non c’è più».
Che tipo era suo padre?
«Era un romantico pragmatico. Commercialista, ma attivo nella politica locale».
Che rapporto avevate?
«Per anni problematico. Sono stato un ragazzo difficile, con un atteggiamento bruttissimo, mal sopportavo le regole, provocavo. Da adulto, quando entrambi abbiamo calato la maschera, ci siamo ritrovati».
È lui che le ha fatto conoscere la musica?
«Sì, mi ha insegnato a suonare le tastiere. Suonava un po’ tutti gli strumenti e aveva un vocione alla Modugno. Negli anni ’50 si esibiva sui Navigli a Milano».
Ha seguito da vicino la sua malattia?
«Sì. Mio padre era una persona molto autonoma nella vita pratica, ma nella sfera emotiva era dipendente dagli altri. La malattia è durata qualche anno e poi lui se n’è andato, in modo inaspettato».
Che cosa vuol dire?
«È morto per un incidente: un’infezione al sangue dopo una chemioterapia. Non è una cosa rara, ma neanche così comune».
È arrabbiato?
«Sì. Ho subito una certa cultura italiana impregnata di superstizione. I medici fatalisti che ti dicono: “Eh, doveva andare così”. No, non doveva andare così. La sua morte è stata un fallimento dei medici. Ma l’Italia ti permette di essere così: è un Paese che ti spinge a giocare la schedina, a sperare che la fortuna ti cambi la vita».
Ha qualche rimorso?
«Avevo i sensi di colpa per non averlo obbligato a curarsi da un’altra parte. Mi ero studiato il suo caso di notte, con una certa supponenza, abbiamo anche litigato su questo punto, ma certe cose non puoi deciderle tu. È il malato che sceglie cosa fare, e anche come morire. E pensare di poter cambiare il corso delle cose è solo vanità».
La più grande lezione che le ha lasciato?
«Mi ha insegnato la libertà. Quella di scegliere, per esempio. Se a 50 anni vado in televisione è anche grazie a lui. Riesco ancora a sorprendermi. Bello, no?».

Valentina Colosimo, Vanity Fair

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