Claudio Cecchetto si racconta

Si vede che il tormentone è un patrimonio genetico. Ce n’è uno solo di Cecchetto produttore, presentatore, fondatore di Radio Deejay, scopritore di Jovanotti, Max Pezzali, Gerry Scotti, Amadeus, Fiorello e tanti altri, ma Leonardo, pargolo diciottenne di Claudio, il fiuto per l’idea l’ha ereditato. L’anno scorso superò il milione e mezzo di visualizzazioni con la parodia trap Le focaccine dell’Esselunga e ora ci riprova con il singolo Pezzo Reggaeton, entrambi firmati OEL, Leo al contrario, senza cognome: «Voleva che la canzone facesse strada da sola e io concordo» spiega Cecchetto senior, 66 anni.

Difficile essere sincero con un figlio dal punto di vista artistico?
«Al contrario, sono particolarmente duro con lui. Deve fare più degli altri, per non farsi dare del raccomandato. Dj Francesco mi piacque proprio perché portava serenamente il cognome Facchinetti».

Qualcuno non le perdonò la scoperta sua e di Sabrina Salerno
«E sbaglia. Sabrina ha venduto 20 milioni di dischi e scalato la classifica inglese, che è il sogno di ogni produttore italiano. Dj Francesco non era un altro Jovanotti, che è unico, semmai era un altro me, infatti è a capo di un’agenzia di talent scout. La canzone del Capitano fu un singolone e non c’è niente di male nel far divertire le persone».

Le piace la trap?
«Ha una componente giocosa rispetto al rap e il pop dovrebbe trarne spunto per rinnovarsi. Non se ne può più delle solite canzoni».

Da Fiorello a Fabio Volo ha scovato i suoi personaggi nella provincia italiana. I social hanno sostituito il ruolo di talent scout?
«I miei ragazzi avevano fame vera, come me che venivo da Ceggia, un paesino di seimila anime. Sogni in grande, se vieni da realtà piccole. I social offrono a chiunque la possibilità di esprimersi ma danno l’impressione che si possa fare tutto da soli. Non è così».

E com’è?
«Il talento è un dono, il successo un mestiere. C’è bisogno di professionisti che ti sostengono e a lungo. Io non ho dubitato dei miei ragazzi nemmeno quando fallivano. I fallimenti fanno crescere. Io stesso fui aiutato, da Mike Bongiorno e gente meravigliosa. Poi ho incontrato tanti stronzi, ma quelli si seminano facilmente».

Ascolta vinili o playlist?
«I vinili fanno nostalgia, un sentimento che non mi appartiene. I nuovi fenomeni non sono gli youtuber ma i playlister, i dj che raccolgono la migliore musica on line. Ho riscoperto il senso della mia passione su Apple Music e Spotify: roba fantastica, che non sentirai mai in radio».

Fa effetto, detto da un radiofonico.
«Lo so ma ormai è uno strumento per produrre business. Ha costi alti e non può perdere pubblico, perciò non rischia. Noi invece potevamo sperimentare. Mettevo i Depeche Mode e mi davano del pazzo».

Un’idea per rimediare?
«Fossi Mark Zuckerberg investirei in una radio con i migliori playlister. Tutti i soldi guadagnati in tv io li versai nella radio, fregandomene della pubblicità per non condizionare la programmazione. Funzionò alla grande».

Fu il più giovane presentatore del festival di Sanremo. Accettò per incoscienza?
«Nel 1980 conoscevo quasi solo musica straniera e mi misero alla guida della canzone italiana. Volevano rivoluzionare e colsi l’occasione. Il patron Gianni Ravera apprezzava la mia conduzione veloce. Diceva: Grazie a te, riesco a mettere in gara un cantante più. Nel 1982 presentai Vasco con Vado al Massimo: per la tv era una novità, per noi della radio era già una star».

La sigla Gioca Jouer sdoganò l’idea che senza saper ballare e cantare si potesse fare una hit.
«Ero stonato, così inventai un gioco su disco che ancora trasmettono nel mondo. È aggregativo, fu il primo flash mob».

Le piacerebbe la direzione artistica del festival?
«Certo, ma ho uno stile poco istituzionale. Anni fa firmai un pre-contratto con la Rai. Mi dissero: Conosci tutti, sei perfetto per Sanremo. Poi la rete ci ripensò perché temeva che, conoscendo tutti, avrei privilegiato qualcuno. Il motivo per cui saltò l’ingaggio era lo stesso per cui mi avevano chiamato».

Mai convocato in giuria ai talent?
«Ci sono stati approcci, ma lì servono giudici televisivi. Diciamo che fra noi non c’è magnetismo».

A cosa sta lavorando?
«Al Summer District di Misano Marittima: dal 2019 tecnologia diffusa, arte in mostra, street food, musica bella e concerti nel bosco accanto alla spiaggia. Deve essere un’esperienza unica anche per gli artisti. Vorrei che la gente imparasse ad andare non in ferie’ ma in vacanza’. In vacanza per divertirsi, non per riposare ed essere così sfruttata sul lavoro i successivi 11 mesi».

Produrrà il disco di OEL?
«Se avrà belle idee. Da padre gli dico che deve comunque andare all’università. Lo studio serve a difendere il proprio lavoro, in ogni campo. E poi gli spiego, come ho fatto con tutti gli artisti che ho lanciato, la teoria della pianta».

Cioè?
«Aspetta, osserva le variazioni minime che percepisci stando immobile. Noti e non vieni notato, assorbi tutto e poi fiorisci».

Simona Orlando, Ilmessaggero.it

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