Sempre meno tv, ormai l’immaginario collettivo lo forgia il web

Rapporto Censis: le tecnologie digitali rilanciano simboli e miti, “ma in questa fase di passaggio vecchio e nuovo convivono”. Nella società dell’individualismo, senza un’agenda sociale condivisa, resiste la famiglia. Blogger, influencer e youtuber sono i nuovi riferimenti

Se negli Anni Sessanta si affermava “lo dice la televisione” per avvalorare convinzioni e creare miti, oggi l’immaginario collettivo si costruisce su internet. E i miti dei Millennials sono tanto diversi da quelli dei Baby boomers che i sociologi del Censis parlano di “frattura generazionale”. Il 14° Rapporto Censis sulla comunicazione, presentato questa mattina, fornisce dati su come è cambiata la dieta mediatica degli italiani a partire dal 2000.

Punto di partenza per aggregare i dati del rapporto è la considerazione che se dai Sessanta al Duemila erano la televisione e il cinema a “rilanciare simboli e miti che diventavano presto parti integranti delle aspirazioni di ciascuno”, adesso questo ruolo spetta alle tecnologie digitali.

Così, se i protagonisti della commedia all’italiana aspiravano a un posto fisso e una Lambretta, ora per chi ha tra i 14 e i 29 anni il fattore ritenuto centrale nell’immaginario collettivo è il social network (32,7 per cento contro il 28 di chi ha tra i 45 e i 64 anni e il 19,9 per cento di chi è tra i 65 e gli 80). Il posto fisso è importante per il 29,9 per cento dei Millennials mentre lo è per il 42,1 per cento dei 45-64enni.

È come se i Millennials non avessero radici e si caratterizzassero per flessibilità e individualismo, pronti a cambiare con la stessa velocità con cui digitano sullo schermo del telefonino: la casa di proprietà è importante per il 17,9 per cento di loro mentre lo è per il 27 per cento di chi ha tra 45 e 64 anni.

Eppure, come osserva Massimiliano Valerii, direttore del Censis, “nonostante le distanze tra i consumi mediatici dei giovani e quelli degli anziani siano assai rilevanti, la fase che viviamo si caratterizza come transitoria, per cui nel corpo sociale coesistono valori vecchi e nuovi, offline e online“. Quanto dice Valerii è più che mai evidente nei dati sulle “figure che esercitano l’influenza maggiore nella costruzione dell’immaginario collettivo della società di oggi”.

La famiglia resta infatti al primo posto (34,8 per cento nei 14-29enni; 31 per cento tra chi ha tra 45 e 64 anni di età e 37,4 per cento tra i 65-80enni), seguita dalle persone frequentate abitualmente per gli adolescenti-giovani (16,3 per cento; intorno al 12 per cento per i più anziani). Crolla il ruolo di intellettuali, giornalisti, politici o personaggi famosi mentre citano “il blogger, l’influencer o lo youtuber” sia i Millennials sia le persone tra i 45 e i 64 anni.

Signore e padrone degli orientamenti sociali si staglia internet, indicato come il “mezzo che esercita più di tutti una influenza sui fattori ritenuti centrali nell’immaginario collettivo della società di oggi” dal 29,3 per cento di chi ha tra 14 e 29 anni; dal 28,1 per cento dei 45-64enni e dal 13,6 per cento degli over 65. Questo dato è ancor più indicativo se lo si somma a quello dei social network, la cui influenza è indicata dal 26,7 per cento dei Millennials, dal 26,3 dei 45-64enni e dal 20,1 degli over 65.

Regge la televisione (22,5 per la prima fascia; 29,1 per gli over 45 e 48,9 per chi ha superato i 65), a conferma di quella fase di transizione che sottolineava Valerii in cui permangono vecchio e nuovo. Ma gli elementi di unificazione sociale sono pochi: “Manca la ridefinizione dell’immaginario collettivo che aveva fatto da carburante al modello di crescita economica e identitaria dell’Italia del boom – conclude Valerii – non c’è più un’agenda sociale condivisa, capace di fare da traino in occasione della ripresa”.

È la nuova società dell’individualismo, che ha trovato in internet il suo punto di riferimento e fa sì che tra i 14 e i 29 anni sia più importante un selfie (21,6 per cento di citazione tra i fattori centrali della società) o la cura del corpo (23,1 per cento) di un buon titolo di studio, importante soltanto per il 14,9 per cento.< Cristina Nadotti, Repubblica.it

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