IL PROBLEMA DELLA RAI È INDUSTRIALE

Il direttore generale Campo Dall’Orto a confronto con il critico televisivo Aldo Grasso. Tg ok, ma sull’informazione digitale siamo il grande assente

di Claudio Plazzotta, ItaliaOggi

Antonio Campo dall'Orto                   Matteo Bazzi/ ANSAIl direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto, continua la sua battaglia contro lo status quo del servizio pubblico televisivo. Probabilmente, nel suo intimo e visto lo scenario politico, sa bene che quella battaglia non la vincerà. Però si dedica perlomeno a scuotere gli animi.
Sottolinea, nel corso di un convegno organizzato dal Foglio a Milano, come quello della Rai sia «un problema industriale», concorda sulla necessità di un decentramento dei modelli creativi di fiction e cinema, ammette che la Rai di oggi non è in grado di fare un sacco di cose e che bisogna smetterla con la retorica delle grandi professionalità interne a Viale Mazzini. Ecco una sintesi del botta e risposta tra il critico televisivo Aldo Grasso e Campo dall’Orto.
Aldo Grasso: La Rai non è all’altezza di fare un sacco di cose. E non per un problema editoriale, ma per un problema industriale. C’è la retorica sulle grandi professionalità interne alla Rai che vengono poco sfruttate. Ma quando vedi un programma Rai girato bene, montato bene, con i giusti tempi, una bella scenografia, ottime luci, un racconto che scorre: ecco, quello di solito è un programma realizzato all’esterno. Insomma, ci sono molti ambiti televisivi nei quali la Rai non ha più il know how per fare cose importanti. E lo stesso, in parte, vale per Mediaset.
Antonio Campo Dall’Orto: Sono d’accordo. Tutto questo è figlio di un percorso di integrazione verticale di tutte le attività, sia in Rai sia in Mediaset. Io sono convinto che un modello creativo sia molto più forte se decentrato. Per questo su fiction e cinema il modello creativo Rai è già decentrato. Altrimenti si va a regimi di creatività più bassi e si accumula solo ritardo.
Aldo Grasso: Quando sento parlare di sedi regionali Rai, una roba da anni 60-70, mi domando come faccia la Rai a stare sul mercato. Come fai a vincere le nuove sfide se le risorse del canone servono per mantenere questi apparati senza senso?
Antonio Campo Dall’Orto: Per questo, infatti, siamo spesso costretti a ricorrere a competenze che vengono dall’esterno. E poi dobbiamo riconvertire le competenze interne. Noi abbiamo una grande dimensione, è vero. Ma la dimensione diventa una forza se fai bene tante cose. I tg della Rai, per esempio, sono fatti bene. Sull’informazione digitale, invece, siamo il grande assente, non abbiamo una presenza significativa. Il problema della Rai è industriale, e la sensazione che ho, purtroppo, è quella che in realtà stiamo accumulando ulteriore ritardo più che recuperarlo, perché Google, Facebook e Netflix, nel frattempo, diventano sempre più grandi. In generale penso che i primi sei canali generalisti, nei prossimi anni, perderanno ancora circa l’1-1,5% di share all’anno complessivamente. Tuttavia i momenti di grande interesse collettivo accresceranno ancora di più i contatti. Basta vedere il Super Bowl negli Usa che ha ascolti in crescita costante negli ultimi quattro anni. Quanto infine al presunto dumping pubblicitario di Rai Pubblicità (il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, accusa il servizio pubblico di aver fatto, in anni passati, un dumping sulla raccolta pubblicitaria con sconti del 95% sui prezzi di listino, ndr), sono d’accordo che la Rai non debba farlo. Il soggetto pubblico non deve spingere troppo su questa leva, e da quando ci sono io c’è stata una netta riduzione degli sconti.
Aldo Grasso: La mia paura è che il calo dell’1-1,5% di share all’anno coincida con i necrologi, ovvero con la morte del pubblico che prima guardava la tv. E la tv che si va prospettando mi fa ancora più paura: una tv in cui i palinsesti sono decisi dagli algoritmi, e dove non ci sia più il coraggio di sperimentare, di fare cose nuove ed eversive. Un conformismo ammantato di modernismo.

Claudio Plazzotta, ItaliaOggi

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